Olympus OM-1: dal genio di Maitani
La storia delle fotografia passa anche per le invenzioni tecnologiche e nel caso della Olympus la storia delle sue macchine fotografiche passa per Yoshihisa Mitani, classe 1933 fu assunto in Olympus nel 1956. Di lui si racconta che costruì la sua prima macchina fotografica all’età di 10 anni. Tuttavia dopo il successo ottenuto con la Pen nella casa giapponese, nel 1971 rivoluzionò il mercato delle reflex presentando la OM-1, ovvero la Olympus Mitani 1, originariamente si doveva chiamare solo M-1 ma il marchio era già stato registrato da Leitz e così dopo pochi esemplari cambiarono il nome in OM-1.
La OM-1 fu una macchina fotografica rivoluzionaria per l’epoca perché ridusse le dimensioni delle reflex del 30% badando solo all’essenziale. La cura dimagrante di Maitani portò a reflex molto compatte e piccole tanto che i colossi come Nikon dovettero correre ai ripari e di li a poco presentarono i loro modelli, fra tutte la Nikon FM.
L’Olympus OM-1 era una macchina essenziale completamente meccanica dove le pile al mercurio da 1.35v soprintendevano solo all’esposimetro. I tempi andavano da 1 sec. a 1/1000 e posa B. L’otturatore, a scorrimento verticale in tessuto, era simile a quello delle Leica M3.
Maitani riteneva che dovesse bastare uno sguardo alla macchina per avere sott’occhio le impostazioni e , pertanto, guardando la macchina dall’atto si vedevano gli ISO, i tempi e i diaframmi. I tempi era azionati da una ghiera coeva all’attacco dell’obiettivo mentre gli ISO erano impostati da una ghiera sul corpo alla destra del pentaprisma.
Il mirino reflex fu uno dei mirini più luminosi di sempre nella storia delle reflex di quel periodo e al suo interno sulla sinistra era visibile l’ago che indicava l’esposizione spot della macchina. Copriva il 97% dell’area con un ingrandimento di 0,92x con un 50mm all’infinito e il vetrino di messa fuoco era intercambiabile. Inoltre lo specchio si poteva sollevare manualmente con l’apposito pulsante posto sul lato del corpo. Maitani fu così essenziale nella produzione della macchina che si rifiutò di inserire il blocco di scatto del pulsante perché riteneva che troppo spesso i fotografi perdevano foto in quanto sulla macchina era inserito il blocco dello scatto e quindi era meglio un fotogramma sprecato in più che una foto persa.
La Olympus OM-1 fu la capostipite di una serie di macchine. Agli inizi degli anni ‘70 fu introdotta dapprima la MD, una OM-1 con possibilità di montare il motore per l’avanzamento della pellicola e successivamente la OM-1n che, come unica natività, oltre al motore, vantava un la possibilità di un flash elettronico. Nel 1975 fu introdotta la OM-2 e fra il 1983 e il 1984 le OM-3 e OM-4 con cui si concluse il ciclo.
Oltre alla versatilità e robustezza della macchina fotografica anche le ottiche della serie OM potevano vantare un ottima qualità soprattutto i grand’angoli molto spinti e il 100mm macro. Una caratteristica delle ottiche Olympus OM è quella di incorporare il pulsante di chiusura del diaframma per la profondità di campo a differenza di molte altre marchi che invece lo incorporavano nel corpo macchina.
Ancora oggi la OM-1 è una macchina che vale la pena usare per la sua maneggevolezza ed essenzialità dei comandi. È un corpo abbastanza compatto e meccanico che non vi lascerà mai in panne. Il problema delle pile al mercurio, oggi fuori legge, è facilmente risolvibile con l’adattatore MR-9 per pile da 1.5V oppure con la modifica inserendo una resistenza che riporta il corretto voltaggio in modo da permettere all’esposimetro di restituire una corretta lettura.
L’oblio della fotografia
Mi sono imbattuto in un articolo interessante di Chris Taylor nel quale si sostiene che il 99% delle foto scattate non interessa a nessuno, neppure a chi le scatta e rimarranno sepolte negli hd dei nostri computer o nei cloud. Chris asserisce che
“Le foto che scattate normalmente spariranno nel dimenticatoio per l’eternità, e sarebbe ora di farsene una ragione”.
Trovo estremamente interessante questa riflessione se guardo i miei hd e il mio smartphone. In effetti siamo passati da un’epoca in cui la perdita dell’immagine era dovuta al supporto (stampa e processi chimici) ad un epoca in cui la caducità dell’immagine è dovuta principalmente all’oblio. In una società dove tutto è immagine, nessuna immagine viene vista veramente.
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“Ogni tanto, in questa foresta appare un fiore luminoso, una fotografia ben curata, salvata sul rullino da Instagram – il clone che ha visto la luce del sole.”
Quanto tempo passiamo su Instagram o Facebook, forse molto più di quanto dovremmo ma quanto tempo dedichiamo ad ogni immagine che ci appare nel feed? Forse qualche secondo. Certamente, direte, siamo invasi dalle immagini come potrei contemplarle tutte? Ebbene, quante volte, allora, riguardate le immagini presenti nel vostro smartphone e per quanto tempo? Siamo diventati degli cercatori d’oro. Scattiamo migliaia di immagini alla ricerca di quella foto che ci regalerà una manciata di vana gloria nella giungla dei social network e le altre dormiranno un sonno infinito.
I ricordi non sono più solo nostri, varranno solo se avranno un riscontro sociale. L’immagine non è più finalizzata al ricordo personale, alla ricerca o allo studio ma verrà prodotta e ammassata in cloud o hd al solo scopo di generare una reazione in chi, forse, dedicherà qualche secondo a lasciare un like non tanto all’immagine ma a chi la posta, come a a dire “si, sto vedendo”.
Le migliaia di fotografie che accumuliamo alla ricerca di quella che ci renderà famosi rimarranno per sempre travolte dalla polvere digitale dell’illusione di essere un giorno scoperti come novelli Vivian Maier del futuro. Nessuna immagine racconterà nulla di noi in questa spasmodica ricerca della fotografia perfetta, postprodotta e masticata dai social network.
La dematerializzazione della fotografia si è portata via i nostri stessi ricordi.
Un tempo odiavamo le serate delle infinite proiezioni di diapositive a casa dello zio di ritorno dal viaggio esotico, oggi lo sintetizziamo in uno scatto sui social e tutte le foto del viaggio hanno un interesse per noi relativamente basso legato al momento della scelta dello scatto da postare o postprodurre. Però, nell’epoca in cui le foto si stampavano venivano anche contemplate e “viste”, raccontavano anche più di quanto raccontino oggi 20 scatti tutti uguali fatti al solo scopo di trovare la foto perfetta: la stessa fotografia non esiste più perché lo scopo diventa l’alimentazione del feed del nostro ego gratificato da una manciata di like. La dematerializzazione della fotografia si è portata via i nostri stessi ricordi, la nostra emozione del motivo dello scatto, dove esistono milioni di immagini nessuna immagine esiste più, neppure per noi.
Caricamento pellicola su Leica M e Rolleiflex
Ancora 4 cose sulle lenti
Ormai si avvicina il momento del primo scatto. Ancora una piccola attesa per la chiave a compasso con cui poter stringere la lente sulla piastra porta lente e poi si parte… a patto di stipare tutta l’attrezzatura in un capiente zaino.
La volta scorsa ho parlato degli obiettivi per il grande formato. Oggi vorrei riprendere ancora alcuni brevi concetti che ho appreso approcciandomi a questo formato e andare oltre.
Primo punto: Per poter usare una lente su un banco ottico, la lente deve poter proiettare un’immagine almeno larga quanto la misura della diagonale del frame. Questo principio è alla base del fatto che una lente costruita per una reflex full frame possa essere usata su un corpo con sensore più piccolo ma non viceversa (a meno di non ritagliare l’immagine sulla misura del sensore stesso). La diagonale di una pellicola 4×5 misura 162mm, quindi una lente per questo formato dovrà coprire un cerchio con un diametro almeno pari a 162mm che sarà la misura minima che dovrà coprire. Su un 8×10 il diametro sarà 325mm e su una 6×6 80mm.
Secondo punto: La misura del circolo dell’immagine dipende dall’angolo di copertura che viene formato da due linee immaginarie che vanno dalla lente fino al cerchio di copertura. Questo angolo è determinato dallo schema ottico della lente. I grandangoli sono disegnati per avere un ampio angolo di copertura.
Terzo punto: Il circolo dell’immagine sarà più ampio della misura del film. I movimenti di un banco ottico permetteranno di muovere il centro dell’immagine proiettata lontano dal centro della pellicola, ma se l’area della pellicola cadrà fuori dal circolo dell’immagine, uno o più angoli sarà tagliato. Questo effetto si chiama “vignettatura” e si ha quando una parte dell’immagine non riceve l’esposizione. Un circolo di immagine più largo della misura minima permette alla lente e al piano del film di muoversi indipendentemente, si potranno così fare aggiustamenti nella profondità di campo, nella forma dell’immagine e nell’inquadratura. Per esempio un 90mm f/8 per un 4×5 potrebbe avere un angolo di copertura di 100° e che quindi produrrà un circolo di immagine di 216mm con il fuoco all’infinito (soffietto alla minima estensione). Un 150mm f/5.6 ha un angolo di copertura di soli 76°, ma ha una distanza maggiore dal piano della pellicola e quindi produrrà un circolo d’immagine di 224mm. Poiché tutti questi circoli di immagine eccedono nel 4×5 la diagonale di 162mm, tutti questi obiettivi sono ammessi, ma nessuno di esso potrebbe essere ammesso su un 8×10 in quanto il diametro minimo sarebbe 325mm.
Quarto punto: Si definisce lente “normale” quella lunghezza focale che è uguale per approssimazione alla diagonale della pellicola. Sono così obiettivi normali un 50mm nel formato 35mm, 80mm nel 6×6, 150mm nel 4×5 e 300mm nel 8×10. Una strada veloce per trovare la lente equivalente nel grande formato è quella di moltiplicare la lunghezza focale di un 35mm per 3 per ottenere l’equivalente nel 4×5 e per 6 nell’8×10. Se invece si conosce la lente nel medio formato si moltiplica per 2 nel 4×5 e per 4 nel 8×10.
Il discorso potrebbe essere ancora lungo sulle ottiche ma credo che sia bene, almeno per i nostri scopi, fermare questi quattro punti.
In difesa della pellicola… Da Martin Scorsese
Che il digitale sia ormai entrato nella nostra vita definitivamente nessuno si sognerebbe di metterlo in discussione. Tuttavia penso che ci sia ancora spazio per la pellicola e che anzi questa possa sopravvivere accanto al digitale senza problemi: in fondo i puristi del suono, ad esempio, non ascoltano ancora i vinili magari con impianti valvolari?
Rimango sempre molto meravigliato quando le nuovissime generazioni associano la fotografia al digitale e non alla pellicola, cosa che invece per me, che sono nato nell’età analogica, risulta normale. Tuttavia i tempi cambiano e l’evoluzione è inarrestabile, ma perché mai dovremmo abbandonare per sempre le pellicole? Questo dilemma non è solo della Fotografia, ma anche di un’altra nobile arte: il Cinema, che come la Foografia è stato travolto dalla rivoluzione digitale.
Eppure c’è ancora chi lucidamente si schiera a favore del mantenimento della pellicola e questa interessante analisi viene da Martin Scorsese, un regista che sicuramente conosce il mondo del cinema e delle pellicole molto bene:
“Ci sono molti nomi per quello che facciamo: cinema, cinematografo, lungometraggi. E… film, pellicole. Ci chiamano registi, ma più spesso siamo chiamati filmmaker, autori di pellicole. Non sto suggerendo di ignorare l’ovvio: l’HD non sta arrivano, è già qui. I vantaggi sono numerosi: le videocamere sono più leggere, è molto più facile girare di notte, abbiamo molti altri mezzi a nostra disposizione per alterare e perfezionare le nostre immagini. E le videocamere sono molto più economiche: oggi i film possono essere girati con davvero pochi soldi. Perfino quelli di noi che continuano a girare in pellicola finiscono il film in HD, e i nostri film sono proiettati in HD. Quindi potremmo tranquillamente dire che il futuro è qui, che la pellicola è scomoda e imperfetta e difficile da trasportare e facile a rovinarsi e deperibile, e che è tempo di dimenticare il passato e dire addio – potremmo davvero farlo facilmente. Troppo facilmente.
Sembra che ci vogliano ricordare di contino che il cinema è, dopo tutto, un business. Ma il cinema è anche una forma d’arte, e i giovani che vogliono fare film dovrebbero avere accesso agli strumenti e ai materiali che sono stati le pietre miliari di questa forma d’arte. Si sognerebbe mai qualcuno di dire ai giovani artisti di gettare via pitture e tele perché gli iPad sono molto più comodi da portarsi appresso? Ovviamente no. Nella storia del cinema, solo una minuscola percentuale di opere che hanno definito la nostra forma d’arte non sono state girate in pellicola. Tutto quello che facciamo con l’HD è uno sforzo per ricreare l’aspetto di un film in pellicola. La pellicola, ancora oggi, offre una tavolozza visuale più ricca di quella dell’HD. E dobbiamo ricordarci che la pellicola è ancora la migliore maniera di conservare i film, l’unica a prova di tempo. Non abbiamo alcuna garanzia che l’informazione digitale durerà nel tempo, ma sappiamo che la pellicola lo farà, se adeguatamente conservata e curata.
La nostra industria, i nostri registi, si sono stretti attorno alla Kodak perché sappiamo che non possiamo permetterci di perderla, allo stesso modo in cui abbiamo perso molti altri produttori di pellicola. Questa notizia è un positivo passo avanti verso la conservazione dei film, della forma d’arte che amiamo”.