La Rolleiflex: storica biottica 6×6
In questo video tutorial illustro come funziona la storica biottica 6×6 Rolleiflex che ha fatto la storia della fotografia e ancora può regalarci emozioni.
Un salto nel grande formato con Intrepid Camera 4×5 Black Ed.
Unboxing e recensione della Intrepid Camera 4×5 Black Edition.
Leica M3: Icona della fotografia
Presentazione della Leica M3, una vera icona della fotografia.
Welcome Coffee
A simply clip about coffee experience.
Miracolo
Miracolo
Racconto di Domenico Pescosolido
Si ritiene che il miracolo sia un accadimento straordinario operato da Dio o da un taumaturgo suo emissario, ma cosa dire quando il taumaturgo è lui stesso il miracolo?
Gli eventi accaddero quando ero bambino e che non comprendevo in pieno ma di cui ero certo che fossero miracolosi in quanto tali li consideravano i miei genitori che per me, nell’innocenza dell’infanzia, erano al di sopra del Verbo stesso.
Quell’uomo, non troppo alto ma dall’aspetto buono, era sempre stato scaltro e astuto. Aveva imparato a volgere a suo favore le difficoltà della vita, del resto non avrebbe potuto essere altrimenti visto che anche la sua venuta al mondo in qualche modo fu originata da un miracolo. Lo trovarono nel 1944 ancora in fasce, dopo un pesante bombardamento alleato, fra le macerie della chiesa di San Gennaro sul Panaro. Non sapendo nulla di lui e della sua famiglia, forse sfollati da chissà quale paese, il parroco lo battezzò, vista l’incertezza se avesse o meno ricevuto il primo sacramento, Miracolo Gennaro. Affidato poi ad un istituto di suore, vi rimase fino a quando fu in grado di provvedere a se stesso.
Da allora visse di espedienti e astuzie, non si sposò mai e ricambiò il Signore per la vita che gli aveva donato commerciando in paramenti sacri. Non esisteva festa religiosa nel raggio di cento chilometri a cui non presenziasse con i suoi paramenti e addobbi. Si dice addirittura che avesse offerto il piviale al Papa nell’unica volta che disse messa in Duomo. Non esisteva parroco, sagrestano o vescovo che potesse fare a meno dei suoi servigi, sempre molto onerosi: ma in fondo la gloria del Signore non ammette avarizie.
Accadde che un giorno di settembre fu chiamato in occasione della prima festa in onore della Madonna del Grottino in una amena località montana, all’interno di una piccola grotta irta di rocce sporgenti dove si diceva ci fosse stata un’apparizione ad un pastore nella seconda metà del Settecento: ogni occasione è utile se serve a dissetare la sete di fede, ricordava il Vescovo nelle sue omelie.
Le giornate erano ancora calde ed io mi divertivo ancora a giocare nei campi di grano appena tagliato ed in paese c’era sempre un’occasione di festa. Miracolo Gennaro si arrampicò fin lassù in montagna attraverso una strada polverosa e bianca resa ancora più accecante dal sole infuocato delle prime ore del pomeriggio. Con una pesante statua della Madonna sulle spalle si inerpicò lentamente lungo quel percorso dove nessun veicolo sarebbe potuto passare e che il parroco avrebbe percorso in processione in serata, con le fiaccole accese in testa a tutto il paese.
Ad ogni curva Gennaro si fermava e si asciugava il sudore che gli colava dalla fronte con un fazzoletto, quando arrivò in cima c’erano già alcuni fedeli in devoto raccoglimento vicino alla piccola grotta, Gennaro li superò senza disturbarli e si incastrò nella grotta per sistemare la statua. Volgeva le spalle ai fedeli mentre armeggiava con la statua che compassionevole sembrava guardare i fedeli. Quel megalomane, gli aveva ordinato una statua più grande del necessario ed ora Gennaro faticava ad incastrarla fra quelle rocce taglienti. In quel mentre, sudato ed accecato dalla fatica, cercando di accomodare la Madonna, avvenne un evento che gli cambiò la vita. Forse una roccia o forse la volontà divina, si tagliò la fronte e il sangue cadde dal suo capo proprio sotto l’occhio destro della statua mentre Gennaro si accasciava in ginocchio invocando lui stesso la Madonna ma per differenti motivi. I pochi fedeli non ebbero alcun dubbio: “Miracolo!”, ovviamente non si riferivano al nome di Gennaro ma all’evento della statua che piangeva sangue e subito si accostarono a Miracolo Gennaro come al vate che aveva visto la Celeste Signora. Quando Gennaro alzò gli occhi vide anche lui la Madonna con la lacrima di sangue ma vedendosi attorniato da molte persone si guardò bene dal riferire le parole che gli erano uscite dalla bocca così gli sembrò più naturale affermare che sì, aveva visto la Madonna!
La voce dell’apparizione corse veloce e Gennaro divenne una sorta di veggente: lui che aveva sempre commerciato in paramenti sacri era diventato colui cha aveva visto la Madre Celeste, l’origine del suo nome fece il resto nell’immaginario della popolazione. Pur non potendo ammettere pubblicamente che ci fosse stato un miracolo, il vescovo non poteva negare che Miracolo Gennaro gli riempiva le chiese e per quella via le casse, così, nonostante non incoraggiasse, non dissuadeva i fedeli dal veneralo.
Quando infine, molti anni dopo, arrivò la pandemia Miracolo Gennaro era già in là con l’età ma la venerazione per lui era immutata. Negli anni aveva confortato vedove, infermi e semplici credenti ricevendone sempre laute donazioni per se e per la Chiesa. Aveva sempre presenziato alle processioni e alle funzioni religiose. Anche poco prima del divieto di ogni celebrazione religiosa a causa dell’emergenza sanitaria, Miracolo Gennaro aveva pregato al Grottino con tutto il suo paese per l’intercessione divina affinché terminasse quella disgrazia per l’umanità. Proprio quelle suppliche furono all’origine del contagio popolare che portò il paese in isolamento sanitario ferreo. Molte persone furono ricoverate e Miracolo Gennaro finì in rianimazione in condizioni critiche mentre tutti, vecchi e giovani, cominciarono a pregare nella solitudine dell’isolamento per lui.
La cura fu trovata quasi casualmente usando il sangue delle persone che avevano sconfitto la terribile malattia e in paese si sparse la voce che era stato il sangue di Miracolo Gennaro donato a far guarire i contagiati. In questi casi si sa le voci viaggiano così veloci che assumono la forza della verità per il sol fatto di esser ripetute. Purtroppo però Miracolo Gennaro non ce la face e, per ironia della sorte o per l’imponderabile volontà divina, rimise la sua anima nelle mani del Signore il giorno del miracolo del Grottino. Fu l’atto finale che decretò definitivamente il miracolo: Gennaro aveva donato il suo sangue per salvare il paese.
Alle esequie, per quanto assolutamente vietate in regime di pandemia, partecipò l’intero paese, prete e sindaco in testa con tanto di fascia tricolore.
Finirono tutti in quarantena dopo che il prefetto appurò l’accaduto, ma in cuor loro avevano guadagnato la certezza che il sangue del Santo avrebbe rinnovato il miracolo salvandoli dalla pandemia.
F I N E
La Paura
La paura
Racconto di Domenico Pescosolido
Cos’è la paura? È quella sensazione di impotenza che ci attanaglia davanti ad un evento che non possiamo governare ma che ineluttabilmente potrebbe strapparti la vita.
Questa era la sensazione che Gigetto Malasorte aveva quando accendeva la tv, ogni sera all’ora di cena, e ascoltava impotente i numeri che il responsabile della protezione civile andava snocciolando negli ultimi giorni. Numeri che annunciavano nuovi decessi e nuovi casi. Ma lui, Gigetto, non aveva proprio voglia di finire in quell’elenco anonimo e, a dispetto del suo cognome, aveva deciso di seguire il suo personalissimo protocollo di sicurezza messo a punto già nel lontano 1986, all’indomani della nube di Chernobyl.
Ora era pronto. I vicini lo avevano visto scaricare enormi quantità di beni di prima necessità non deperibili come ceci in scatola e carne secca molto prima che arrivasse il peggio.
– A Gigè ma che te prepari alla guerra? – lo prendevano in giro i vicini.
Ma loro non capivano, era esseri ignobili che non percepivano il pericolo e, molto probabilmente, non sarebbero sopravvissuti.
– Ma che t’he venuta la sciolta, Gigè? Che ce fai con tutta quella carta igienica?
– Prevenzione – era l’unica risposta che dava, e lo diceva con quel tono di chi la sa più lunga di te e ti fa sorgere quel dubbio che, in fondo in fondo quell’ometto tarchiato e burbero, possa aver ragione.
Ogni giorno l’eco di notizie lontane rimbombavano nelle televisioni senza che nessuno vi prestasse più attenzione del solito, cosa avrebbe dovuto accomunarci a quei paesi così lontani? Gigetto, invece studiava le mappe, le perturbazioni e segnava i giorni, al quinto piano di un fatiscente condominio dove viveva solo in appena trenta metri quadrati: quanto bastava per una brandina, un angolo cottura e un cesso ricavato in un incavo le cui finestre davano sulla tromba delle scali.
Aveva valutato che di lì a due mesi si sarebbe scatenato l’inferno, ormai ne sapeva più di qualunque esperto: aveva tradotto dall’indi persino alcuni documenti governativi di una regione sperduta del Pakistan dove due eremiti avevano approntato misure simili alle sue.
Con il passare dei giorni le notizie assunsero il tono di un moderato allarme, si cominciarono a registrare casi isolati, ma la vita scorreva placida e tranquilla come al solito. Gigetto invece decise di passare allo stadio successivo e attivò nella cantina, situata al piano interrato del suo palazzo, il generatore d’emergenza che gli garantiva, in quel bunker di cemento, l’autonomia di una lampadina per 365 giorni. Rinforzò la porta con una nuova in grado di reggere ad una contaminazione batteriologica e alle radiazioni nucleari fino ad una potenza di cinque bombe atomiche. L’ultimo stadio lo compì foderando le pareti di cemento con lastre d’acciaio in grado di reggere l’urto delle deflagrazioni atomiche.
– A Gigè ma che stai a fa laggiù? Nun te pare de esagerà un pochino?
– Prevenzione
Con il passere dei giorni quella parola, così secca e dura cominciò ad assumere i connotati della preoccupazione in chi se la sentiva ripetere.
Anche i ragazzini che lo prendevano in giro tutti i giorni da quando le scuole erano state chiuse, cominciavano ad avere una sinistra preoccupazione quando in modo serio e burbero Malasorte pronunciava quella parola:
– Aoh Gigè, però tu non me poi spaventà la creatura, falla un po’ finita co sta storia della prevenzione!! Ma che non la senti la televisione? Andrà tutto bene.
Gigetto, guardava la vecchia signora del secondo piano con l’aria di chi pensa:
Questa non ce l a farà, sarà sottoterra prima che finisca tutto.
Quando tutto fu pronto decise di acquistare le ultime cose recandosi al supermercato come già molte persone stavano facendo ma bardato con una tuta ad alto contenimento che avrebbe trattenuto anche le fiamme dell’inferno. Era quasi curioso vedere una composta fila di persone che aspettano il proprio turno per entrare nel supermarket, mentre lui era in pieno assetto da emergenza nucleo-batteriologica.
– Gigè, ma tu mica te poi presentà vestito così. Me spaventi tutti i clienti – gli disse la commessa del supermarket che lo conosceva da una vita.
Ma Gigetto disse, con la voce cavernosa che veniva da uno scafandro di classe 3 certificato dall’esercito degli Stati Uniti per la guerra chimica:
– P R E V E N Z I O N E
Quando infine tutti si barricarono in casa e l’attesa cominciò a diventare snervante lui si serrò la porta della cantina alle sue spalle e se ne rimase li sotto. Avrebbe deciso di rimanere lì per un periodo almeno doppio a quello previsto in queste situazioni.
Ognuno chiuso in casa attendeva l’inevitabile, giorno dopo giorno, ora dopo ora. E quelle parole di Gigetto rimbombavano nella testa di ognuno come un eco tetro nel muto palazzo.
Quel maledetto vecchiaccio aveva ragione!
Le notizie si accavallarono, vere e false, buone e cattive; la gente sembrava impazzita e viveva reclusa in attesa di qualche cosa che non arrivava o che era già arrivata e che avrebbe potuto ucciderti nel peggiore dei modi possibile.
I mesi passarono e anche le stagioni, lentamente le persone si riappropriarono dei propri spazi. Dapprima lentamente, poi tumultuosamente: il peggio era passato. La paura, quella sensazione di impotenza e angoscia finalmente svaniva, la voglia di libertà pervase tutte le strade. Il nemico era vinto.
Gli inquilini del palazzo si ritrovarono tutti nella piazzetta di fronte al palazzo si baciarono, si abbracciarono, saltarono felici per una libertà ritrovata: la paura di non farcela lasciva il passo all’ottimismo per una nuova vita.
Qualcuno si accorse che mancava Gigetto.
– Sarà ancora la sotto, non avrà capito che è tutto finito
– Forse dovremo dirglielo
L’amministratore del palazzo decise che era il caso di andare a vedere che fine avesse fatto Gigetto. Bussò alla porta ma nessuno rispose, così chiamò a raccolta gli altri uomini del palazzo ma la porta era impossibile da forzare. Si decise di chiedere aiuto ai Vigili del Fuoco che arrivarono nel pomeriggio e si misero all’opera con fiamma ossidrica ma non furono in grado di forzare la porta. In tarda serata l’esercito prese l’estrema decisione: far saltare quel portone con una carica di dinamite.
BOOM!!
Un nero fumo invase tutto il palazzo e tutte le finestre degli appartamenti andarono in frantumi ma la porta di Gigetto resistette. I suoi coinquilini cominciarono ad averne abbastanza e da più parti si sollevò un unica protesta:
– Lasciatelo li sotto quel vecchio pazzo, che rimanga li lui e la sua prevenzione.
Tuttavia le autorità esautorarono l’amministratore e si decise per la perforazione del soffitto attraverso l’androne del palazzo.
La mattina seguente, dopo un’intera notte di inutili tentativi, i genieri dell’esercito riuscirono a penetra nel bunker calandosi dal soffitto e trovarono Malasorte riverso sul pavimento ormai in stato di avanzata decomposizione.
L’autopsia rivelò che Malasorte era stato avvelenato da una partita avariata di zuppa di funghi nei primi giorni dell’emergenza.
Alle esequie partecipò tutto il palazzo. Il prete nella brevissima omelia non potè che compiangere il fratello per la cattiva sorte toccatogli.
F I N E
Il lavoro agile
Il lavoro agile
Racconto di Domenico Pescosolido
Potevi scommetterci, sarebbe stato lì anche se fuori ci fosse stata la fine del mondo. Arrivava in ufficio alle 7,30 e andava via alle 18,00, così da vent’anni. Mai una malattia, mai un’assenza. Era lì, immobile davanti al suo computer, di tanto in tanto si alzava, prendeva un caffè, fumava una sigaretta in completa solitudine, poi tornava al suo computer. La sera prendeva il suo borsello e usciva senza salutare nessuno.
Alvaro Travaglio era una figura enigmatica: alto, magro e con il volto scavato, poteva avere 50 o 60 anni, nessuno lo sapeva con precisione. Ogni mattina varcava la soglia dell’ufficio con il suo gessato color bruno scuro, solo in inverno usava un impermeabile beige e un cappello a falda larga che lo rendeva più simile ad un agente della gestapo che non ad un impiegato addetto alla negoziazione con l’estero. Molte storie giravano su di lui ma nessuno poteva dire cosa fosse vero e cosa non lo fosse. L’unica cosa che si conosceva della sua vita privata era la presenza di una ipotetica moglie che si deduceva dalla fede che portava ed anche questo particolare era oggetto di numerose storie. Qualcuno aveva sentito che la moglie era una specie di arpia che lo costringeva fuori casa tutti i giorni, altri sostenevano che la moglie fosse morta e lui ne fosse rimasto scioccato.
Comunque, al di là di tutte le dicerie e le legende che giravano sul suo conto, l’unica certezza riguardava la sua dedizione al lavoro nonostante le sue modalità di lavoro ricordassero più un impiegato degli anni ottanta che un uomo moderno del nuovo millennio.
I più anziani si ricordavano ancora cosa successe quando l’azienda, nel suo perenne moto di trasformazione in ossequio ad un principio capitalistico secondo cui tutto deve cambiare per non cambiare nulla, introdusse quello che oggi conosciamo come smart working o lavoro agile. All’inizio l’azienda pensò che per ridurre gli spazi e contrarre i costi il personale potesse esser dotato di computer portatili. L’azienda intraprese un’ampia campagna di ammodernamento inviando computer portatili in grandi quantità a tutti gli uffici inclusi quelli più periferici. Anche ad Alvaro giunse l’email con la quale veniva informato che di lì a breve sarebbe stato dotato di un nuovo computer portatile in sostituzione della sua postazione desktop dotata di tre monitor e ampia tastiera. Non diede peso alla mail e la cancellò bollandola come la solita trovata aziendale di facciata. Qualche giorno dopo dovette ritirare il suo portatile dopo una lunga trattativa con l’usciere: era deciso a rifiutarlo in quanto, a suo dire, era un’attrezzatura non richiesta. Capì così che, forse, quella email conteneva un fondo di verità. Nonostante ciò il computer portatile rimase nella scatola per altre tre settimane, solo quando un addetto informatico lo chiamò per la configurazione decise di aprire la scatola e verificarne il contenuto.
– Bene signor Travaglio, ora lo accenda
– Non si accende
– Forse è scarico, colleghi la presa di corrente
– Non c’è nessuna presa
– Nella confezione dovrebbe esserci il caricabatteria, lo usi per favore
– Le ho detto che non c’è nessun caricabatteria, arrivederci!
Il giorno seguente il suo capo gli chiese cosa fosse successo in quanto era stato chiamato dall’addetto informatico per la mancata configurazione del portatile. Ma la risposta fu laconica:
– Non mi hanno inviato nessun carica batterie e il portatile non si accende
Fu ricontattato per rispedire indietro il portatile in attesa di uno nuovo. Alvaro consegnò il portatile all’usciere con la stessa soddisfazione di chi si libera di un pacco-bomba, ma tre giorni dopo si vide recapitare un nuovo pacco. Questa volta fu il suo capo a consegnarglielo
– Ti prego di chiamare subito gli addetti informatici per la sistemazione di questo portatile, dobbiamo dar corso alle disposizioni sul lavoro agile.
Se il suo capo gli avesse comunicato la riduzione dello stipendio probabilmente Alvaro l’avrebbe presa meglio. Andò in giro nello stabile della società in preda al panico per quattro giorni bevendo caffè e fumando come mai aveva fatto prima e di tanto in tanto borbottando contro il modo di fare dell’azienda che non era in grado di valutare il lavoro delle persone, cosa per altro assolutamente vera.
Quando finalmente poté comunicare al suo capo la perfetta configurazione del computer portatile ricevette l’ennesimo colpo al cuore:
– Molto bene Travaglio, ti va bene se sarai a casa tutti i mercoledì, tanto per iniziare?
– In che senso “stare a casa tutti mercoledì”?
– Il lavoro agile, lavori il mercoledì da casa con il portatile. Non sei contento?
Ebbe quasi un mancamento.
– Lavoro agile? Ma non vi rendete conto di quello che faccio? È di vitale importanza, devo essere al centro delle attività, non si può fare da casa con il computer dei puffi, chi ha deciso queste cose? – Era diventato tutto rosso e si era incurvato sulla scrivania del suo capo come se stesse per esplodere ribaltando l’intera scrivania.
– Adesso basta Travaglio! Siamo nel nuovo millennio si lavora da casa! Punto e basta. Prendi quel portatile e da mercoledì te ne stai casa.
Valutò di prender ferie o malattia, ma ciò non avrebbe cambiato la sostanza delle cose: rimanere a casa con la moglie cosa avrebbe comportato? Rimanere in casa con quella donna, forse era anche una brava donna, ma sarebbe stato in grado di resistere per molto tempo in aggiunta ai weekend che però aveva imparato ormai a gestire? Ci avrebbe provato.
Si vestì esattamente come se stesse per andare in ufficio e poi si sedette in sala, aprì quell’affare chiamato notebook. La moglie fu la prima a notare il suo nervosismo dopo quindici minuti di inutili tentativi di connessione alla rete aziendale. Dopo un ora non ne poteva più, chiuse il portatile e si recò in ufficio.
Il capo vedendolo gli intimò di tornare a casa, ma lui imperterrito non rispose e si mise alla sua postazione. Non si parlarono più per mesi e non si parlò più neppure del lavoro agile.
Una mattina entrando in ufficio notò che non c’era più nessuno, ma non si preoccupò più di tanto finché non si accorse che la sua postazione era stata smantellata. Il suo capo si affacciò alla stanza e gli disse, con il sorrisetto di chi la sa lunga e senza nessuna compassione:
– Bene Travaglio, da domani stai a casa come tutti e per tutta la settimana. Se vuoi lavorare ancora per questa azienda impara ad usare il lavoro agile.
Avrebbe voluto gridare al complotto, chiamare la polizia o anche solo tirare un pugno a quel sottosviluppato del suo capo, ma capì che era tutto inutile. Avrebbe dovuto convivere con la donna che aveva spostato per tutta la settimana e abituarsi ad un monitor minuscolo, per non parlare del trackpad: un affare quadrato che fungeva da puntatore che si muoveva con le dita ma che di fatto era indomito, riuscendo a muovere qualsiasi cosa sul video tranne quello che serviva.
Il primo giorno fu uno shock, ma nulla in compenso ai giorni successivi. Per connettersi aveva scoperto che le ore migliori erano fra le 21 e le 4 del mattino, ma rimaneva ancora da risolvere la situazione del monitor minuscolo così decise di connettersi al televisore. La cosa funzionò per un paio di giorni ma quando arrivò un ordine da eseguire immediatamente alle tre del pomeriggio dovette interrompere il reality che la moglie seguiva tutti i giorni con interesse maniacale. Lei non gradì affatto e per evitare future interruzioni la donna gli sequestrò il telecomando. Anche il trackpad non lo aiutava affatto, l’ultima volta aveva immesso un ordine di acquisto al posto di uno di vendita causando un’ingente perdita: proprio lui che si vantava di non aver mai commesso neppure un errore in tutta la sua carriera.
Le cose andarono sempre peggio. Dovette persino ricorrere al medico per calmare i suoi istinti omicidi. Alla fine cedette.
Scrisse una mail al personale implorandolo di permettergli di svolgere la sua attività presso un ufficio fisico. Non ebbe risposta. Scrisse all’amministratore della società elencandogli gli enormi problemi che si stavano verificando a causa dell’impossibilità di lavorare dall’ufficio e si dichiarò disponibile ad aprire lui stesso gli uffici sostituendosi ad uno degli uscieri che poteva così essere promosso ad altro ruolo.
Solo l’intercessione di un politico, compagno di scuola della moglie (ma le male lingue sospettano che fosse molto più di un compagno di scuola), ottenne finalmente le chiavi dell’ufficio in cambio della restituzione del portatile che effettuò come la liberazione dal peccato originale.
Si narra che oggi Alvaro Travaglio sia l’unico a possedere le chiavi dello stabile e a decidere chi meriti il privilegio di lavorare in sede e guarda con l’aria di chi la sa lunga tutti quei giovani che non vedono l’ora di lavorare da casa: in fondo sa che non passerà molto tempo prima che anche loro gli chiederanno di poter lavorare in ufficio pur di uscire di casa.
F I N E
Un libro da conoscere: American Voyage
American Voyage è un libro del fotografo italiano Mario Canicelli che negli anni ‘60 ha raccontato l’America. Mario Carnicelli vinse un premio edito da Ferrania e attraversò molte città degli Stati Uniti raccontando con le sue fotografie la vita e i luoghi che incontrava e lo colpivano, oggi è un esempio di street photography, sintesi perfetta di come il racconto si amalgama la curiosità.
L’oblio della fotografia
Mi sono imbattuto in un articolo interessante di Chris Taylor nel quale si sostiene che il 99% delle foto scattate non interessa a nessuno, neppure a chi le scatta e rimarranno sepolte negli hd dei nostri computer o nei cloud. Chris asserisce che
“Le foto che scattate normalmente spariranno nel dimenticatoio per l’eternità, e sarebbe ora di farsene una ragione”.
Trovo estremamente interessante questa riflessione se guardo i miei hd e il mio smartphone. In effetti siamo passati da un’epoca in cui la perdita dell’immagine era dovuta al supporto (stampa e processi chimici) ad un epoca in cui la caducità dell’immagine è dovuta principalmente all’oblio. In una società dove tutto è immagine, nessuna immagine viene vista veramente.
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“Ogni tanto, in questa foresta appare un fiore luminoso, una fotografia ben curata, salvata sul rullino da Instagram – il clone che ha visto la luce del sole.”
Quanto tempo passiamo su Instagram o Facebook, forse molto più di quanto dovremmo ma quanto tempo dedichiamo ad ogni immagine che ci appare nel feed? Forse qualche secondo. Certamente, direte, siamo invasi dalle immagini come potrei contemplarle tutte? Ebbene, quante volte, allora, riguardate le immagini presenti nel vostro smartphone e per quanto tempo? Siamo diventati degli cercatori d’oro. Scattiamo migliaia di immagini alla ricerca di quella foto che ci regalerà una manciata di vana gloria nella giungla dei social network e le altre dormiranno un sonno infinito.
I ricordi non sono più solo nostri, varranno solo se avranno un riscontro sociale. L’immagine non è più finalizzata al ricordo personale, alla ricerca o allo studio ma verrà prodotta e ammassata in cloud o hd al solo scopo di generare una reazione in chi, forse, dedicherà qualche secondo a lasciare un like non tanto all’immagine ma a chi la posta, come a a dire “si, sto vedendo”.
Le migliaia di fotografie che accumuliamo alla ricerca di quella che ci renderà famosi rimarranno per sempre travolte dalla polvere digitale dell’illusione di essere un giorno scoperti come novelli Vivian Maier del futuro. Nessuna immagine racconterà nulla di noi in questa spasmodica ricerca della fotografia perfetta, postprodotta e masticata dai social network.
La dematerializzazione della fotografia si è portata via i nostri stessi ricordi.
Un tempo odiavamo le serate delle infinite proiezioni di diapositive a casa dello zio di ritorno dal viaggio esotico, oggi lo sintetizziamo in uno scatto sui social e tutte le foto del viaggio hanno un interesse per noi relativamente basso legato al momento della scelta dello scatto da postare o postprodurre. Però, nell’epoca in cui le foto si stampavano venivano anche contemplate e “viste”, raccontavano anche più di quanto raccontino oggi 20 scatti tutti uguali fatti al solo scopo di trovare la foto perfetta: la stessa fotografia non esiste più perché lo scopo diventa l’alimentazione del feed del nostro ego gratificato da una manciata di like. La dematerializzazione della fotografia si è portata via i nostri stessi ricordi, la nostra emozione del motivo dello scatto, dove esistono milioni di immagini nessuna immagine esiste più, neppure per noi.
È morto il padre de “Gli Americani”
Robert Frank è morto. Potrebbe essere solo la notizia della scomparsa di un altro famoso fotografo se non fosse Robert Frank che legò il suo nome soprattutto ad un unico lavoro. Lavoro unico e rivoluzionario, “The Americans”, dove racconta l’America degli anni ’50. Dopo quella pubblicazione di fatto smise di fotografare (o per lo meno non raggiunse più quelle vette) e si dedicò, con altrettanto successo, al cinema dove legò il suo nome ad un famoso e controverso documentario sui Rolling Stones.
Fu un fotografo innovativo e rivoluzionario come lo fu Cartier-Bresson ma diverso e opposto per alcuni versi al grande maestro francese. Robert Frank non cercava l’inquadratura perfetta o le invisibili geometrie del quotidiano, lui raccontava la realtà, quello che vedeva. Spesso lo faceva istintivamente senza neppure scendere dall’auto su cui viaggiava. Non cercava l’inquadratura ma se necessario ricorreva a pesanti tagli in camera oscura. “The Americans” – come scrive il Fatto Quotidiano – si è imposto come un grande classico di “letteratura visiva”, segnò più che un’epoca forse la fine del mito americano. Robert Frank oggi rimane uno dei capisaldi di quella che viene chiamata “street photography”. Viene spesso imitato e citato nel modo di raccontare per immagini ma senza che questa imitazione diventi vera innovazione narrativa.
Robert Frank
Rimasi molto colpito dalla sua fotografia e dal suo approccio istintivo e ne parlai anche in occasione della visita alla sua mostra nel 2016 a Milano, e dopo la sua morte il suo lavoro rimane, a mio avviso, un esempio di racconto fotografico dove non necessariamente si ricerca la purezza dell’immagine e dove la singola fotografia diventa un capitolo di un racconto più vasto. Robert Frank ci lascia in eredità la concezione di una fotografia che può rompere gli schemi della ricerca estetica a tutti costi e ci mostra come fotografare possa voler dire narrazione.